Irrawaddy Mon Amour, l’amore gay nella repressiva Birmania

Irrawaddy Mon Amour è un film che parteciperà al Torino Film Festival programmato per il prossimo 20-28 Novembre 2015. Si tratta di una pellicola in cui vengono messe a nudo le passioni e i sentimenti di un amore omosessuale, ma in cui non mancano affatto sprazzi di denuncia sociale. Tutto ruota attorno alle vicende di Soe Ko e Saing Ko, due ragazzi gay che vivono in una piccola comunità della Birmania e che con l’appoggio della comunità LGBT decidono di contrarre matrimonio. Il primo matrimonio gay nella storia della Birmania. Perchè questo è un Paese tremendamente bello, ma al tempo stesso dilaniato dai conflitti civili e da una forte restrizione delle libertà personali.

I registi Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e Nicola Grignani sono tutti italiani, e affermano di aver voluto dare spazio a questa storia perchè rappresenta “una delle prime unioni gay in Birmania ma anche la scelta evidentemente coraggiosa dei suoi protagonisti di ribadire il diritto all’amore, e di farlo sfidando le paure e i rischi in un Paese in cui la libertà non viene garantita nel vero senso del termine”.

Irrawaddy Mon Amour nasce da un’idea di Valeria Testagrossa che nel 2009, dopo essere saltata a bordo di un camion incaricato del trasporto di sacchi di riso, si è ritrovata in un villaggio contadino sparso nelle campagne birmane che contava non più di 600 abitanti. E proprio in questo villaggio nato a ridosso del fiume Irrawaddy, viveva e probabilmente vive tuttora una comunità a forte presenza di gay, di lesbiche e di transessuali attivi nel campo dei diritti civili. A fine 2014 Valeria ha perciò deciso di tornare in quel luogo con la compagnia del co-regista Andrea, ed ha pensato bene di utilizzare quei luoghi come sfondo di un film che avrebbe dovuto raccontare come vive il mondo LGBTQ in Birmania, e di farlo con una delicatezza, con uno stile poetico e con quel tocco di amore che solo quei luoghi tanto affascinanti ma così contraddittori sono in grado di far emergere.

Come raccontano i registi, con Irrawaddy Mon Amour “abbiamo usato la camera a mano per star dietro ai protagonisti, poiché crediamo sia questo il modo migliore per far trasparire la repressione che aleggia nell’aria e che riesce ad entrare a far parte delle menti delle persone, il tutto, pur rimanendo invisibile e navigando sott’acqua”. Per questo, secondo i registi del film destinato all’esordio, in Birmania vige “una minaccia quasi impalpabile ma non per questo è meno pericolosa e angosciosa”.

Ma il documentario si sofferma anche sulle speranze nutrite dagli attivisti LGBTQ in seguito alla vittoria elettorale del premio Nobel Aung San Su Kyi, la quale ha sin da subito promesso delle significative modifiche alla Carta Costituzionale: indimenticabili le sue parole quando parlò di una “Costituzione come sangue e anima di una nazione”, come una Costituzione che “dovrebbe garantire all’intero Paese i diritti fondamentali”. San Suu Kyi si augura di mettere in piedi una Costituzione che si allontani dai precetti vigenti i quali impongono di vestirsi in un dato modo e di mangare determinate pietanze, prendendo le distanze da un clima repressivo delle libertà dei suoi cittadini. E Irrawaddy Mon Amour con i suoi protagonisti e raccontando le sfaccettature della comunità gay, lesbica e transessuale, non manca certo di levare alto un grido di speranza in questa direzione!

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